Je_parle_feministe, il perché sono diventata femminista.

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C’è un motivo se la questione delle donne mi sta tanto a cuore e c’è un motivo se oggi non ho problemi a
definirmi femminista e ne vado estremamente fiera: oggi, dopo tanto tempo, finalmente ho l’occasione di parlarne e spero con tutto il cuore che la mia esperienza personale possa essere d’aiuto a tante altre persone e indurle a rompere il silenzio quando c’è bisogno di alzare la voce.

Tutto è iniziato cinque anni fa, quando frequentavo la terza media. Un giorno, durante una lezione di ginnastica, mi accorsi che la mia nuova compagna di classe, da poco arrivata in Italia dall’Egitto, se ne stava tutta sola in panchina e, quando le chiesi spiegazioni, lei mi disse che in Egitto le ragazze non potevano correre davanti ai ragazzi e che nel suo Paese una donna non era considerata alla pari di un uomo. Ne rimasi sconcertata, e quando mi venne il dubbio che la mia scuola, la mia preside e i miei professori fossero già a conoscenza del problema e non avessero fatto assolutamente nulla a riguardo, provai un profondissimo senso di delusione e di sgomento. Mi sentivo smarrita: la mia scuola, il mondo in cui ero vissuta fino ad allora e di cui mi ero sentita da sempre parte integrante, si era rivelata ora a migliaia e migliaia di anni luce da me.

Capii che era necessario prendere le distanze, se non volevo diventare anche io complice di quel sistema infernale che, pur di lavarsi le mani ed evitare ogni impiccio, era disposto a lasciare che una ragazzina proseguisse la sua vita con la convinzione di essere inferiore a un uomo.

Così, sbalordita, ferita e arrabbiata, decisi di non restarmene con le mani in mano e di mobilitare il maggior numero possibile di persone perché la mia compagna potesse correre insieme a me e ai miei compagni, ma dovetti fare i conti, come già avevo tristemente previsto, con il terribile muro dell’indifferenza. Tra compagni (maschi e femmine) e professori, c’era chi mi definiva un’esaltata, un’invasata, chi utilizzava la parola “femminista” come un insulto, chi mi diceva di stare tranquilla e di pensare ad altro.

Quando chiesi spiegazioni alla professoressa, convinta che la scuola non dovesse restare indifferente e che avesse il potere, il dovere e la responsabilità di lanciare un messaggio forte e preciso (oltre al fatto che, in ogni caso, anche ginnastica, come matematica, geografia e storia, è una materia obbligatoria), mi fu risposto di lasciar perdere perché la famiglia della ragazza non voleva che facesse ginnastica. Ma ciò che più mi spaventò fu che, mentre mi venivano spiegate queste cose, ciò che lessi negli occhi e nelle parole di chi mi doveva educare non era indignazione, ma una pericolosa e ostinata rassegnazione.
Provai a parlare con i professori, ma una volta mi fu addirittura risposto che la preside era sicuramente a conoscenza della questione e che pertanto tutto era in regola e di certo non avrei dovuto essere io a preoccuparmene.

Ricevetti una serie di risposte confuse e contraddittorie che sembravano mirate solo a offuscare e insabbiare la questione e sminuirne la gravità, con una crescente insofferenza ed irritazione nei miei confronti, quasi fossi colpevole di avere sollevato il problema.

Tutti, compagni, professori e genitori, nessuno escluso, hanno preferito lasciare la questione irrisolta piuttosto che scavare a fondo per fare luce su questa vicenda, ed è stato insegnato ai ragazzi a non battere ciglio e ad alimentare il mare nero dell’indifferenza. Salvo poi riempirsi la bocca di tante belle parole in altre occasioni, versando lacrime e condannando l’indifferenza che ha portato alla morte di milioni e milioni di persone in occasione del 27 gennaio, giornata dedicata al ricordo delle vittime dell’Olocausto, e leggendo brani tratti dai libri di testo sui diritti delle donne, che mi sapevano tanto di una presa in giro nei miei confronti, di un vero e proprio schiaffo in faccia a me, che mi sentivo chiamata in causa perché tutti sapevano come la pensavo.

La mia scuola mi ha umiliata, mi ha fatto sentire impotente e inopportuna per il solo fatto di non voler restare indifferente, ha cercato di scoraggiarmi assecondando chi stava zitto.

Ma se proprio devo scavare a fondo in tutta questa storia, in fin dei conti devo dire che mi è stata di grande insegnamento, perché osservando il comportamento dei miei insegnanti ho decisamente capito chi non voglio essere nella mia vita e, di conseguenza, chi voglio diventare.

Ho imparato che il silenzio è pericoloso, e che deve essere contrastato. Ho imparato che non si può semplicemente lavarsene le mani per convincersi di avere la coscienza a posto e ho imparato che non bisogna per forza aspettare che la Storia faccia il suo corso: ognuno di noi è responsabile di ciò che avviene nel Mondo, perché il Mondo lo costruiamo Noi.

Ho sperimentato sulla mia pelle che non c’è niente di più pericoloso dell’indifferenza generale e che, come ha detto Martin Luther King, “ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; è l’indifferenza dei buoni.”

Ringrazio quindi la preside e i miei professori perché mi hanno fatto diventare quella che sono oggi, ma non sarei loro grata allo stesso modo se fossi la ragazza che è stata consapevolmente abbandonata al suo destino e lasciata sola sulla panchina a guardare gli altri correre: questa triste scelta dovrebbe gravare ogni giorno sulle loro coscienze, ma sono convinta che tale preoccupazione non abbia mai nemmeno sfiorato i loro pensieri.

Ringrazio infine tutti coloro che mi hanno definito “femminista” in modo dispregiativo, perché non avevo la minima idea di che cosa significasse la parola e solo grazie a loro mi sono informata e ho finalmente capito chi sono; li ringrazio perché devo soprattutto a loro se ogni giorno porto al collo una catenina con la scritta Je parle feministe, regalatami della mia famiglia per i miei diciotto anni.

Costanza Lazzarini


Nota di La Costola.

Costanza Lazzarini é una ragazza di 18 anni, attivista e femminista, la trovate su instagram cliccando qui Je_parle_feministe.

Vi consigliamo di seguirla, non solo per l’impegno nel parlare di problematiche che altri ragazzi della sua età neanche conoscono, ma perchè lo fa anche bene.

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